Oscar De Summa si racconta a DU30
La sorella di Gesùcristo è il percorso di una giovane donna alla ricerca della propria identità, uno sguardo onesto sull’energia femminile, sulla provincia italiana, i suoi protagonisti, tra candore e crudeltà in una dimensione mitica e ancestrale. Una trama semplice raccontata con un linguaggio popolare e raffinato: il dialetto pugliese, la musica degli anni ’80, una graphic novel che si piazza tra l’emozione e lo stupore di una narrazione ad alto tasso di coinvolgimento emotivo. Maria, una ragazza di Erchie, un paesino pugliese, prende un’arma ed esce di casa, decisa a vendicare la violenza subita la sera prima, durante una festa locale, da un ragazzotto. Il suo cammino diventa la linea drammaturgica su cui si sviluppano vari strati di un’opera caleidoscopica: una porzione di storia contemporanea italiana, dolorosa e poco indagata, i cui postumi sono ancora ben visibili, l’Italia nella sua dimensione provinciale, fatta di piccoli paesi e grandi periferie, il decennio liquido rappresentato dagli anni ‘80, periodo di disimpegno, leggerezza, disponibilità economica e sonnolenza culturale.
Oscar De Summa ha inaugurato così la terza edizione di Direction Under 30, promossa dal Teatro Sociale di Gualtieri, dal 22 al 24 luglio, con uno spettacolo, il secondo della ‘Trilogia della provincia’, che inizia con Diario di provincia e si conclude con Stasera sono in vena, che racconta gli anni in cui la generazione protagonista del Festival è nata e cresciuta.
De Summa si consegna con grande generosità al pubblico, rivestendo il triplice ruolo di drammaturgo, regista ed attore, compiendo un’indagine antropologica, emotiva, stilistica volta alla costruzione di un linguaggio drammaturgico chiaro, lineare ma dotato di grande profondità. Dopo aver raccolto applausi ed ovazioni nella platea piena del Teatro Sociale di Gualtieri, ha incontrato il pubblico e la critica nella biblioteca di Guastalla venerdì mattina.
Perché hai scelto di portare in scena la provincia italiana, dedicandogli una trilogia?
L’Italia è tutta provinciale, ci sono due grandi città Milano e Roma e una miriade di piccoli centri di provincia in cui le dinamiche sociali, relazionali e umane si ripetono allo stesso modo dal Veneto alla Sicilia. È una dimensione quasi mitica e ancestrale che personalmente sento molto vicina, perché sono nato e cresciuto in un paesino della Puglia. Fino a quindici anni fa facevo un altro tipo di teatro, più autoreferenziale, e lì fece capolino una crisi e un senso di insoddisfazione perché il pubblico mancava e trovavo frustrante ed inutile realizzare uno spettacolo per i miei colleghi. Iniziai allora un nuovo percorso, prima con un corso di commedia dell’arte e poi studiando da autodidatta, incontrando persone di diversa estrazione sociale e provenienza. Più il pubblico è lontano dalla mia vita più mi interessa. Il teatro deve parlare alla gente e della gente, quindi ho iniziato a portare in giro per locali e luoghi non convenzionali Diario di provincia che si nutre di un linguaggio popolare e brillante e che è stato ripagato da un successo di pubblico: ho fatto 600 repliche. Self-portrait che è un lavoro più sofisticato ha fatto solo 30 repliche.
In scena utilizzi diversi linguaggi e svolgi contemporaneamente tre ruoli, drammaturgo, regista e attore. Come mai questa scelta?
Il teatro si nutre anche di altri linguaggi artistici. La scelta di inserire il fumetto è il risultato di una ricerca iconografica volta a lavorare con il subconscio del pubblico. Per il modo di scrivere, invece, ho preso ispirazione da Dario Fo. La narrazione come stile di teatro serve appunto per incontrare il pubblico. Drammaturgo, regista, attore sono ruoli separati negli anni ‘80 e ‘90 per motivi politici, ma in origine era un’unica figura a svolgere i diversi le diverse fasi di preparazione dello spettacolo. Il teatro di regia intellettuale ha creato danni, il più grande è stato quello di spostare l’attenzione dall’azione alla riflessione sull’azione. Il tipo di regia in Italia che ho come riferimento è un piccolo mondo di capocomici come Morganti o Manfredini.
Che funzione ha il teatro oggi?
In questo momento il teatro ha la grande possibilità di scardinare le relazioni di potere. È l’unico atto creativo dato dalla compartecipazione di attori e pubblico. Io sono un ex eroinomane, ho vissuto la dolorosa guerra civile della droga negli anni ’80. Ho vissuto in anni in cui il potere per evitare conflitti ha diffuso benessere e divertimento istillando vergogna e senso di colpa in modo strutturale. Il teatro ha quindi una grande responsabilità: dare voce al disagio, al senso di inadeguatezza, raccontare la solitudine che ci accomuna.