Recensione: “L’uragano e la lava incandescente ci travolgono. E non è un sogno.”
Lo spettacolo comincia con una fine. L’inizio coincide con un’esplosione. Ciascuno dei quattro protagonisti immagina a modo proprio le sembianze di un’imminente catastrofe che di lì a poco avrebbe dissolto l’intera umanità. Tutta l’energia presente sulla terra verrà risucchiata poco a poco finché non rimarrà alcuna briciola di polvere. Ancora: una pioggia di meteoriti sorprenderà d’improvviso il tran tran della vita urbana oppure un’enorme onomatopea, un boom generale, divorerà l’uomo. L’ipotesi di una fine dell’universo affascinante e insensata, quella che verrà percorsa per l’intera durata dello spettacolo, coincide però con l’esplosione di una hit estiva, Tropicana, che travolge, infiamma, scioglie e infine annienta un gruppo di persone o di bagnanti spiaggiati assolutamente inermi, pigri e forse già rassegnati alla distruzione totale. Comincia lo spettacolo e gli interpreti sulla scena sembrano impacchettati all’interno di una scatola verde o di un setting cinematografico, abitano dei corpi congelati all’interno di un sogno (o forse di un incubo), non sanno far altro che sorseggiare una bevanda al gusto d’arancia, prestare attenzione a un faro sopra di loro e aspettare. I loro corpi molli, flaccidi si presentano come allucinati, abbagliati e con delle pose plastiche tanto da coincidere con i manichini sub-umani presenti negli interni ultra-moderni e alla moda di Richard Hamilton: sono loro i nuovi consumatori ciechi e bacati per un mordi e fuggi all’ultimo respiro.
Stop! Francesco Alberici, Claudia Marsicano, Daniele Turconi, Salvatore Aronica, i membri della compagnia Frigoproduzioni, rompono la fissità delle loro posture e gli sconfinamenti apocalittici dei primi sussulti e cominciano a scomporre, monitorare e seguire la genesi dell’ennesima traccia musicale destinata a colpire a morte un’altra estate e le stazioni radiofoniche di maggiore grido. Le battute tra gli interpreti, intenti a incidere il loro pezzo e scalare le vette del successo, non sono veri e propri dialoghi ma quasi dei ritagli, delle parole monche e slabbrate lanciate al compagno, delle frasi strozzate o pronunciate tra i denti, dei silenzi, dei vuoti sulla scena. Sul palco i quattro anti-eroi si muovono da una parte all’altra come veri e propri rapinatori d’aria del mondo del calcio, ognuno capace di innestare perplessità, suggestioni e stereotipi tirati fino al paradosso e al surreale grazie a una scrittura scenica inzuppata di parole smaccate e discorsi irragionevoli e morbosi. In un continuo entra ed esci dal laboratorio di registrazione, spaventosa fucina contraddistinta da cliché, canoni e consuetudini da inseguire per cavalcare l’andamento del mercato musicale, gli pseudo-membri di Gruppo Italiano elaborano una meditazione sprezzante e beffarda sui legami che intercorrono tra la creazione e la ricerca artistica. Attraverso un’indagine ben più vasta, allora, ecco che il sistema a cui sono avvinghiate tutte le arti oggi ci appare come un drago a tre teste, cieco e capace di non contemplare l’errore, atti inaspettati e sperimentazioni, stabilendo a priori leggi ferree di produzione, uniformando tutte le proposte e spedendo ai destinatari merci cotte e confezionate a puntino e tutte «lavorate di cesello», come ci suggeriscono alcune parole durante lo spettacolo. Non c’è tempo da perdere e non c’è spazio per le baruffe, i soliloqui, le incertezze, i fraintendimenti, le sottigliezze e i bisogni personali. L’io e la sua creatività sono ridotti all’osso. Con la politica del “tutto fa buon brodo” occorre rispettare un solo diktat seguendo sistematicamente le precauzioni del caso: «il mercato mangia, è un organismo vivente» e i suoi piatti prelibati sono uno sgargiante videoclip, un martellante ritornello e un indispensabile ingresso anche nel mondo delle televisioni. Lo spettatore di Tropicana via via che i minuti trascorrono ride amaramente, è incredulo dinanzi a scene mortificanti e patisce le tribolazioni e i tormenti di individui ebeti, che grazie alla lucidità tecnica, agli scambi repentini e agli spunti drammaturgici folli degli interpreti, sono simili a veri e propri squali affamati, a insulsi giocatori di un match vigliacco e insignificante. Lo spettatore è chiamato a leggere i meccanismi e i segreti che si celano dietro la messa in scena, tanto vicina a un marchingegno, a un giocattolo i cui pezzi, parte dopo parte, vengono messi a nudo, disinnescati e disintegrati dagli stessi interpreti, in un tempo carnefici e in un altro vittime. La bottiglia spaccata sulla testa di Salvatore non è in vetro come ci suggeriscono gli stessi attori e le parole attorno a una puntuale analisi di tutto il testo della canzone Tropicana diventano inutili chiacchiere perché il nocciolo di tutta la questione deve ruotare attorno a un jingle raggiante e indimenticabile. Fuori e dentro la scena, un contenitore assolutamente anonimo e artificioso, caratterizzato completamente da un colore insulso e da una chitarra e due microfoni, questo lavoro lancia fendenti al sistema-intrattenimento dello spettacolo dal vivo e delle televisioni, svelandone le ombre, mettendone a nudo il ridicolo e smascherando alcuni degli aspetti concernenti anche la sfera di ricezione dello spettatore. All’incontro con l’uomo, l’apocalisse, questa insensata esplosione al gusto d’arancia tutta da bere, si presenta, direttamente dalla città di San Jose, come una dolce ninna nanna: una voce spersonalizzata ed elettrica lentamente scorre per intero tutto il testo della canzone. È la morte che sillaba dopo sillaba si impadronisce dello spettatore assopito. I membri, stavolta quelli autentici, di Gruppo Italiano hanno messo a letto tutti i bambini, vanno via dalla cameretta non prima di accertarsi che tutti stiano dormendo profondamente. Non sia mai che qualcuno provi a restare sveglio.
Damiano Pellegrino
Visto al Teatro Sociale di Gualtieri il 21.07.2018