Recensione: “U* Quale teatro ci identifica”

Quando ormai lo spettacolo volge al termine, disseminati sull’assito biondo giacciono piccoli mucchietti d’abiti, abbandonati ognuno a se stesso come crisalidi dopo la metamorfosi. Nessuna farfalla però al centro della scena, nessuna figura compiuta, bensì un* performer (la convincente Beatrice Fedi), insieme esploratore, viaggiatore nel tempo e nello spazio, una guida sulle tracce di identità fluide che, tra realtà biografica e finzione, riguardano tanto lei quanto il pubblico.

Al Teatro Sociale di Gualtieri – meraviglia ritrovata della bassa emiliana, teatro all’italiana capovolto da mozzare il fiato – va in scena U* – Storia di un’identità fluida, prima nazionale e debutto assoluto per il collettivo CRiB, all’interno della quinta edizione di DU30. Il collettivo, nato nel 2017 dall’incontro tra l’attrice Beatrice Fedi, Carolina Ciuti, curatrice e storica dell’arte, e il regista Roberto Di Maio, si confronta con le questioni di genere a partire da un fatto di cronaca epocale: il primo caso al mondo di riconoscimento di un bambino quale gender undetermined, non appartenente cioè alla classificazione tradizionale maschile/femminile. Una vicenda esemplare da cui scaturisce innanzitutto il lavoro di ricerca della compagnia, a partire dai fattori e dai condizionamenti alla base dell’identificazione individuale e collettiva con determinati modelli sociali e culturali nella definizione del genere e della sessualità.

Il contesto è plasmato dalle relazioni e da come esse prendono a loro volta forma attraverso il linguaggio. Da questo presupposto si producono intersezioni e sovrapposizioni che investono su più livelli l’immaginario collettivo, recuperando e intrecciando elementi eterogenei della storia e della cultura in cui siamo immersi. Così ad accogliere il pubblico scorre su un grande schermo-fondale una sequenza in loop di Winnie the Pooh mentre allo specchio si osserva sollevandosi la maglietta. Il video si svincola dal meccanismo della ripetizione e l’orsacchiotto cartoon lascia ora spazio a un suo alter ego in scena, un Teddy non meglio identificato, undetermined per antonomasia in qualità di peluche. Eppure è proprio lui a introdurre la domanda fondamentale: quale ti identifica? Un interrogativo che non cessa nemmeno al disvelarsi dell’attrice sotto al costume e che piuttosto cresce e si fa più incalzante mentre di nuovo ricade nella ripetizione e assume i toni di un assistente digitale. L’identità è ricondotta stavolta a modelli stereotipati e binari, in rapida successione sullo schermo fino alla sua inconfutabile determinazione algoritmica. Risultato: il soggetto analizzato corrisponde al tipo cisgender, piena corrispondenza tra identità di genere, identità sessuale e ruolo socialmente approvato.

Possibile accertare un’identità così netta senza sbavature o variazioni intermedie? Che succede allora se alla stessa artista vengono assegnati ruoli maschili per via della propria fisionomia? Il corpo si rivela un elemento centrale della questione, dilatando le maglie del discorso verbale e imponendosi con la sua ineludibile presenza e plasticità. La riflessione iniziale si arricchisce di una forte componente coreografica, in cui il disegno luminoso e il tappeto sonoro originale enfatizzano le movenze e l’espressività del corpo umano. Nella successione di quadri, la ricerca procede in un avvicendarsi di momenti coreografati e segmenti discorsivi, componendo una ricognizione storica ed etimologica intenta a risalire al conio e al significato delle parole, risultante in ultima analisi in una sintomatologia della nostra necessità di delimitare e definire i termini della questione.

Se da un lato assistiamo a uno sforzo di progressiva spoliazione del* performer dai panni che di volta in volta si trova a indossare come ulteriore strato sottocutaneo, dall’altro questa riduzione si misura con una moltiplicazione delle voci, in parte attraverso il coinvolgimento diretto del pubblico – invitato ad esempio a offrire la propria interpretazione sulle macchie di colore che si riveleranno essere il test di Rorschach – in parte con la diffusione di registrazioni campione in un’antologia di opinioni intorno all’opportunità e alle responsabilità legate alla determinazione o indeterminazione di genere. La composizione di quest’ultima scena rappresenta una delle vie di accesso preferenziali per apprezzare la cifra caratteristica della ricerca artistica e del lavoro di CRiB: mentre infatti in teatro risuonano le voci e le testimonianze, sullo schermo scorrono queste parole fatte testo, disvelando la portata e le ripercussioni di ogni singola parola parlante. Ognuna di esse apparentemente vorrebbe delineare con precisione un concetto e uno spazio, tuttavia vibra e si espone ad un’oscillazione, a un’intrinseca instabilità che il corpo nudo in scena, velato soltanto da un impermeabile bianco traslucido, sollecita, deformando con le sue movenze e la sua danza il pattern logico, alla stregua di un sasso scagliato nell’acqua.

Ciò che progressivamente tenta di prendere forma è proprio l’informe di una possibilità veramente non predeterminata, la forma di un undetermined che trova slancio in frammenti sognanti disseminati durante lo spettacolo. Momenti di alterità che inframmezzano la successione logica della ricerca per aprire squarci utopici su una realtà completamente estranea alle nostre dinamiche classificatorie. Sono quei dialoghi fittizi accompagnati dalle musiche oniriche di Claudio Cotugno, in cui l’attrice raccoglie alcune sue istantanee appena scattate e mentre ancora stentano ad emergere dal grigio della polaroid si rivolge a U*, amico lontano quanto la realtà dall’utopia. I primi piani restituiti sullo schermo da una telecamera fissata sotto alla superficie trasparente di un piccolo tavolino mostrano una narrazione più intima e tenera, che per temperatura fa da contraltare alla descrizione più algida e per certi versi didattica del resto dell’esplorazione. Certo resta un mondo inaccessibile, in cui a pennellate idilliache prendono forma quadretti quasi bucolici, liberi dalle strutture sociali che ostacolano talvolta una piena accettazione della propria identità; tuttavia questo semplice spiraglio di possibilità è come una boccata di aria fresca e alimenta una speranza.

Nel complesso, U* colpisce per la sensibilità rispetto a un tema insieme intimo e pubblico, raccontato dalla prospettiva originale e insolita del cisgender, evidenziando l’irriducibilità dell’indeterminato rispetto a logiche binarie escludenti. La commistione continua dei linguaggi tra prosa, coreografia, ricerca visiva e composizione musicale rispecchiano l’ibridazione artistica alla base del collettivo e rappresentano senz’altro il motivo di maggior apprezzamento dello spettacolo e della direzione artistica intrapresa. La frammentarietà che a volte sembra andare a discapito dell’organicità complessiva della performance sembra porre una questione collaterale di genere sul teatro. Viene da chiedersi se la commistione di forme e linguaggi percorsa da CRiB non tenti di trovare una sintonia con modalità e tempi di fruizione più affini ad un pubblico giovane sempre più naturalizzato all’interno di ambienti multimediali immersivi e ibridati. Ai giovani l’ardua sentenza…

 

Gianluca Poggi

Visto al Teatro Sociale di Gualtieri il 22.07.2018