Recensione “Calcinacci – Il corpo di un’insoddisfazione”

Un muro, un trapano, delle scarpe sporche e sacchi sparsi. Una luce dall’alto illumina la parete e da lì si espande divenendo materica e rievocando l’atmosfera pulviscolare che si respira in un cantiere. Così la scenografia di Calcinacci di Claudio Larena – vincitore del premio della Giuria Critica – accoglie il pubblico di Direction Under 30.

Sul palco, il continuo dialogo tra un operaio e il muro al quale deve lavorare. Tra queste due entità si crea un rapporto conflittuale e complesso, fatto di cura e rabbia allo stesso tempo. Il protagonista svolge il lavoro con solerzia e una dedizione quasi amorevole, ma poi nervosismi, insoddisfazioni, rancori atavici, insorgono. Il muro è significato trasceso, uno strumento con cui indagare le personali zone d’ombra. Questo conflitto è rappresentato tramite una corporeità pervasiva, che diviene il principale strumento di narrazione. Il corpo che Larena porta in scena è sotto sforzo, sudato, nervosamente teso. Si aprono squarci in cui la parola si sospende e diventa pura fisicità, momenti materici e tangibili che riportano alla concretezza qualsiasi metaforizzazione.

Sebbene la drammaturgia offra allo spettatore appigli fondamentali per seguire la narrazione attraverso frasi d’impatto e concise, è la componente corporea a dare solidità e l’organicità alla struttura del dramma; come in uno spartito in cui i movimenti del corpo sono note che, alternandosi, definiscono una melodia. La forza espressiva che ne deriva e i movimenti inquieti, quasi nevrotici, del personaggio, risultano però annichiliti dagli automatismi lavorativi che l’operaio è costretto a compiere, resi tramite un uso stereotipato degli oggetti di scena, maneggiati sempre allo stesso modo, quasi come riflesso inconscio.

D’un tratto però la ripetitività si rompe, il corpo si ribella: tira testate al muro e lo colpisce per distruggerlo. Poi si pente, se ne riprende cura, ricomincia il solito rituale. Il rapporto muro-operaio è un ritmo ben definito, costituito da precise alternanze e battiti regolari, mentre risulta sfalsata la relazione tra l’uomo e il circostante. Inserito infatti in questo ciclo di attrazione-repulsione, egli si aliena, si decontestualizza rispetto al suo presente: gli amici, la famiglia, i suoi clienti, sono identità fumose che egli percepisce con distanza e in termini di conflitto.

La figura dell’operaio non è una figura qualunque, ha con sé un repertorio di significati politici e storici fortemente connotati. Larena però chiarisce subito – durante la video intervista effettuata durante il festival – che la sua opera non vuole avere un significato politico: l’artigianato è la materia viva dalla quale la sua ricerca attinge, il mondo del lavoro manuale e la creazione di oggetti è il suo terreno conosciuto; pertanto la scelta di portare sul palco questa figura non è da intendersi come qualcosa che riguarda la lotta di classe. Il senso di alienazione portato sul palco resta tuttavia molto presente, rivelandosi un sentimento intimo e personale, non (solo) legato alla propria posizione sociale: è un senso di distacco tra se stesso e la collettività intorno, alla quale guarda come mondo irrimediabilmente altro, inconciliabile con il proprio che si esaurisce nel perimetro di quel muro.

«Sei piena di vuoti, e io non ho gli strumenti per riempirli», dice alla parete e rimane il dubbio che in realtà stia parlando alla propria vita. Poi un ultimo colpo dietro al muro, un’ultima implosione interna.

Silvia Mastrangelo