Recensione “Dall’altra parte. 2+2=? – Indagine sul “non-ancora”
Sott’acqua, a occhi chiusi, i suoni esterni sembrano lontani e si mescolano con le vibrazioni dell’elemento. In apnea il pubblico attende. La luce illumina per la prima volta il palcoscenico e tre figure avvolte in una tuta blu con indosso occhiali e una maschera a coprire le loro bocche, corrono appropriandosi lentamente della scena e si stagliano all’interno di un complesso di tubi che circoscrive lo spazio d’azione. Questa è la prima immagine che Putéca Celidònia presenta al pubblico della nona edizione del festival Direction Under 30, con lo spettacolo Dall’altra parte. 2+2=?, interpretato da Emanuele D’Errico, Dario Rea e Francesco Roccasecca.
Le suggestioni iniziali vengono confermate, ci troviamo di fronte a dei feti eterozigoti appena concepiti che dopo pochi minuti dall’ingresso in scena subiscono la prima trasformazione: la tuta cade divenendo parte della scenografia. La metamorfosi dei personaggi sarà resa visivamente dalla progressiva caduta degli elementi del vestiario, che corrisponderà a una mutazione del linguaggio e della postura. Il presupposto teorico dal quale la compagnia è partita per lo sviluppo della drammaturgia è uno studio condotto dalla neuroscienziata Marian Diamond, secondo la quale nel processo di crescita pre-natale perdiamo più della metà dei nostri neuroni. Assistiamo alla trasformazione di tre creature, che progressivamente si riconosceranno come fratelli.
Essi si trovano a condividere forzatamente uno spazio ristretto, di prossimità e dipendenza. Questo stato di costrizione è reso da un elemento fondamentale: la corda. I personaggi saranno infatti legati tra loro per tutta la durata dello spettacolo da questo cordone ombelicale di canapa. Si tende, si attorciglia, avvolge, è elemento ambiguo di unione e divisione. Sono gli stessi attori ad affermare che è proprio a partire da questo oggetto che la scrittura scenica è stata sviluppata: il rapporto simbiotico con la corda è elemento cardine del movimento, parte stessa del corpo e trasposizione materica degli spostamenti temporali, spaziali e cognitivi.
Questa relazione di vicinanza forzata dei personaggi – suggestione di partenza per la creazione dello spettacolo – non è solo fisica e spaziale, ma viene sviluppata anche a livello emozionale. Febo, Damiano e “Innocente” – sono questi i nomi-non-nomi che in una delle scosse di trasformazione sono attribuiti alle creature – vivono in uno stato di attesa. La noia, ingannata per mezzo di giochi, gare, discussioni, viene alternata a momenti di tensione trasformativa, introdotti dalla voce fuori campo di Clara Bocchino.
La situazione di prossimità e vicinanza, di (pre)esistenza sembra essere un espediente narrativo funzionale alla riflessione su alcuni interrogativi che definiamo generalmente “esistenziali”: domande sull’alterità, sul cambiamento, sulla felicità, sul futuro che nella loro banalità fatichiamo a pronunciare ad alta voce nello spazio quotidiano. Nella linearità scandita dal trascorrere dei mesi avviene però uno scarto: Innocente smette di trasformarsi e di perdere neuroni, mentre Febo e Damiano vagiscono ai piedi del palcoscenico ormai fuori da quello spazio circolare. Innocente osserva, sperando ancora che vi sia una seconda uscita. È interessante notare come la crepa tra coscienza e incoscienza corrisponda agli stati di nascita e pre-nascita.
Il luogo-utero è il pretesto scelto per sviluppare la situazione del “non ancora”, uno stato di possibilità. L’intenzione della compagnia pare essere quella di utilizzare la metafora dell’utero in modo neutro, semplicemente come luogo-simbolo di una vicinanza fisica e intellettiva. Al termine dello spettacolo ci si chiede però se sia possibile neutralizzare un oggetto così fortemente caratterizzato a livello individuale, politico e sociale. L’utero, anche se assunto come metafora, non può entrare sulla scena senza essere problematizzato e interrogato. Non è infatti possibile, anche e soprattutto alla luce della situazione storica che viviamo, spogliarlo della sua complessità. Esso non è un semplice organo, ma è simbolo di determinazione singolare e collettiva. La sua neutralizzazione corre il rischio di apparire una semplificazione troppo ingenua che indebolisce una messa in scena solida, coerente e ben sviluppata dal punto di vista tecnico e scenografico.
Marcella Pagliarulo