Intervista ad Annagaia Marchioro della compagnia ‘Le Brugole’
Dopo-festival. “Ristorante Nizzoli”. Lo storico ”imperatore della zucca”, che in passato ha servito le sue prelibate pietanze a letterati e artisti del calibro di Cesare Zavattini e Federico Fellini, ci ha appena deliziato con tortelli dolci alle mandorle, rane fritte (sì!), e gamberetti dalla combinazione di ingredienti più assurda e squisita che si possa immaginare.
All’uscita fermo Annagaia Marchioro, giovane attrice della compagnia de Le Brugole per farle qualche domanda, ma – inaspettatamente – le domande comincia a farmele lei, perché si dice una ragazza molto curiosa, le piace ascoltare i racconti delle persone.
Lo spettacolo andato in scena per Direction Under 30, Per una biografia della fame, è tratto da un romanzo di Amèlie Nothomb sul rapporto tra la nostra società e il cibo (ma anche tra fame bulimica e fame d’amore) e vede Annagaia protagonista di una confessione: una sorta di dialogo senza interlocutore se non lo spettatore che, tra sorrisi di ammiccamento, non può far a meno di sentirsi colpito, un po’ vittima e un po’ carnefice.
Allora, Annagaia, innanzitutto parlami della tua formazione.
Io ho studiato filosofia, all’Università. Poi a un certo punto sono entrata in una crisi nera e ho deciso di passare all’indirizzo teatrale, tipo DAMS. E lì mi sono domandata se io il teatro volevo studiarlo o farlo. Dovevo scegliere, perché poi a un certo punto entrano in gioco fattori come il limite di età per entrare nelle scuole. Io mi sono detta che lo voglio fare, lo posso fare. Mi sentivo di correre questo rischio. Così ho fatto domanda alla “Paolo Grassi” e sono entrata. Da lì in poi ho seguito il percorso più pratico, fisico, del teatro.
La compagnia Le Brugole, invece, quando è nata?
Nel 2011. La compagnia è composta da me, un’altra attrice e l’organizzatrice, Manuela. Siamo sostanzialmente un trio. Poi abbiamo un’autrice che scrive per noi, un’autrice comica, Giovanna Donini. Perché i due spettacoli, con me e Roberta De Stefano in scena, sono spettacoli comici e tutto è nato un po’ perché entrambe eravamo insieme in “Paolo Grassi” e, sai, boh, a volte nascono così le collaborazioni. Alla fine abbiamo vinto il festival di Asti sulla nuova drammaturgia (Premio Scintille – Festival di Asti) con Metafisica dell’amore: lì è partito tutto, abbiamo fondato un’Associazione, perché c’era il desiderio di lavorare a questo testo che inizialmente era un monologo… e a me annoiano i monologhi!
Parliamo di Per una biografia della fame, il tuo spettacolo andato in scena questa sera al festival “Direction Under 30”. E’ tratto da un romanzo, l’omonimo libro di Amélie Nothomb, ma in scena c’è un’Annagaia, e la prima domanda che sorge spontanea è quanto di Annagaia, di te, ci sia in questo spettacolo.
Be’, sì, ci sono molte parti che sono autobiografiche. Il fatto di aver scelto questo tema sicuramente mi riguardava – partendo dal presupposto che il tema del cibo per quanto oggi sembri un argomento semplice, alla fine diventa un argomento complesso che ognuno può raccontare, perché il nostro rapporto con il cibo riflette il nostro rapporto con il mondo. Quindi anch’io, nella mia vita, ho avuto a che fare con lo stesso rapporto come tutti; a un certo punto il mio rapporto con il cibo ha modificato le mie relazioni con gli altri. Cose così…
Per esempio? Ti riferisci a qualcosa in particolare? Te lo chiedo perché nello spettacolo sono presenti degli archetipi riguardanti anche il rapporto tra madre e figli durante l’adolescenza… come quando i nostri genitori decidevano per noi cosa mangiare/non mangiare, quale identità dovevamo assumere, in quali costumi presentarci al mondo (come vestirci, in pratica – mi riferisco a un frammento dello spettacolo).
Esattamente. Sono cose che passano tutti durante l’adolescenza. L’adolescenza è un periodo di merda. Io credo che se a ognuno di noi venisse chiesto: «Ma tu vorresti ritornare adolescente?», la risposta, almeno la mia, sarebbe «Ma sei pazza?», cioè… E’ un periodo allucinante! Dove tutto è terribilmente importante, terribilmente ingovernabile… e diventa tutto “terribilmente”! Basta dire che quando io ho letto questo romanzo di Amèlie Nothomb mi sono innamorata di questa lettura. E’ il romanzo dove lei parte, e parla soprattutto, da una storia autobiografica che è una storia abbastanza incredibile: l’autrice è figlia di un ambasciatore, viaggia per il mondo, ecc. ecc. … Lei, comunque, che è una grande scrittrice, non ha intitolato il libro come un’“autobiografia”, ma “Biografia della fame”, perché il suo taglio riguardava raccontare la sua storia rispetto a uno sguardo sulla fame. E questo suo sguardo era quello che mi interessava. Per cui io ho preso delle cose del romanzo e poi ho cominciato ad aprire, cioè, a lavorare per improvvisazioni, inserendo o storie di qualcuno che mi raccontava delle cose, anche cose mie, ed è ancora un lavoro in itinere, nel senso che è nato da una residenza, e quindi piano piano, rispetto alle possibilità produttive e di autoproduzione che ci sono oggi, portandolo avanti e sfruttando tutte le occasioni per poterci lavorare.
Sull’estetica della scena, invece, chi ha lavorato? In quella forte bidimensionalità delle proiezioni vedo ritratta quest’immagine del corpo ideale, nel senso che la figura umana stilizzata, l’ombra, nel nostro immaginario è anche la linea di una silhouette. Trovo interessante anche la scelta di rappresentare la madre della protagonista come un fascio di colore bianco, di luce, che cade trasversale dall’alto su uno sfondo nero.
In realtà le videoproiezioni in questo modo sono nate lavorando con la ragazza che è in scena con me, Annina, che è un’illustratrice, lavora anche per il “Corriere della Sera”. In realtà avevamo entrambe letto questo romanzo e ci interessava la tematica, per questo abbiamo deciso di lavorare assieme, non sapevamo bene cosa poteva nascerne, perché comunque bisognava lavorare attraverso due linguaggi, cioè la mia modalità di voler affrontare questo racconto; che è un po’ una confessione, comincia anche in un modo che sembra che non cominci… Le videoproiezioni: abbiamo fatto una ricerca durante una residenza in Sardegna per capire come potevano funzionare i due linguaggi. Per questo Annina, per esempio, ha provato anche a fare delle cose puramente illustrative, come dei quadri, però questa possibilità non ci sembrava tanto interessante, perché sembrava un po’ una “scenografia disegnata”, e quindi, provando, è venuta un po’ fuori questa interazione… e perché potesse assumere una forma sia mentale – perché si parla di una malattia mentale, la fame è uno stato mentale in questo caso – sia l’universale, cioè per tutti, abbiamo cercato di lavorare sull’astrazione, quindi sulla luce, per cui la proiezione è diventata una luce. In verità io con la luce della proiezione compongo un’immagine. Così, per lei, l’illustratrice, questi vari quadri visivi sono dati da me fisicamente e da quello che poi ne risulta, come un prolungamento. L’idea è quella che in futuro, quando uno comincia a uscire fuori da questo stato mentale, ad accettarsi, a stare dentro al mondo – così come l’ultima immagine è un’immagine fisica e colorata – che entri il colore! Che entri il tratto libero! Che si esca fuori dalla bidimensionalità! E il senso, ovviamente, è che poi però nella vita… nella vita non è mai tutto perfetto, perché la vita è fatta di forme imprecise, imperfette. La vita reale non è fatta di rettangoli e quadrati.