Recensione: “Le metamorfosi incompiute”
Il nostro corpo è una prigione che spegne sul nascere pulsioni o ne è alla loro mercé, le sue funzioni e disfunzioni ci definiscono almeno in parte e la sua metamorfosi è imprevedibile. Anche di questo parla Sonosarò della compagnia milanese La Lucina che da due anni lavora su questo coraggioso tentativo di mettere in scena stralci dall’opera di Antonio Moresco in forma di spettacolo teatrale. Nei primi anni del 2000, con Gli esordi e i Canti del caos, Moresco viene conosciuto dal grande pubblico generalista e la sua influenza arriva a toccare anche il teatro contemporaneo, per cui La Lucina, che deve persino il nome al celebre scrittore mantovano, si proietta in questa scia e lo fa con collaborazioni eccellenti come quella di Johnny Costantino e Guido Mannucci. La performance vive di una irrequieta mutevolezza per tutta la sua durata, cominciando dalla prossemica che alterna monologhi e dialoghi, improvvisazioni di danza e semplici coreografie di gruppo (sempre incerte tra il registro mimetico e quello evocativo). Partecipano allo smembramento visivo le luci come anche i video proiettati sul fondo e ovviamente le incursioni sonore. In questa voluta e sfacciata iperstimolazione perdersi è facile, ed in parte nello spettatore crea aspettativa e curiosità, dall’altra può sfociare nella frustrazione. Eppure lo spettacolo, che colpisce per la preparazione tecnica degli interpreti, non appare definito nel processo concettuale. I tre capitoli evocati senza soluzione di continuità si mescolano ed intersecano sfociando spesso nel disordine tematico. Sovrastimolare è un’operazione delicata perché le forme di caos controllato hanno uno scheletro compositivo che ne permette la decifrazione, sebbene debba passare attraverso un denso muro di significanti. Ci sono e risultano parzialmente riconoscibili i corridoi tematici che attraversano le varie stanze (come quello del corpo, i suoi limiti e le sue potenzialità incompiute), singolarmente queste però non vengono sufficientemente indagate per poter porre delle domande compiute. I problemi sembrano scaturire dall’impalcatura di segni, primi piani, coreografie, testi, indagini e suggestioni uditive che ingolfano il meccanismo narrativo perdendo la spinta gravitazionale dell’opera di Moresco. Anche la cifra estetica soffre di alcune problematiche; sebbene il lavoro e la ricerca dietro siano palesi, appare comunque chiuso in un ecosistema criptico e senza chiavi di lettura. In molti elementi si evidenziano delle derivazioni stilistiche, in parte volutamente laddove anche l’influenza delle collaborazioni si percepisce, ma di contrappeso inchioda la messa in scena a un registro visivo già visto, elaborato e dissezionato nel teatro contemporaneo in modalità più affastellate ed evocative, lasciando così che il processo di mutazione accelerazionista deleuziano venga messo a fuoco esclusivamente durante la prosa e anche lì in maniera parziale. La misura di queste critiche va comunque messa in prospettiva nel notevole e suggestivo lavoro di concettualizzazione ambientale, dalla densità sonora alla prossemica, passando per le luci che ridefiniscono lo spazio scenico di canto in canto. È evidente che il certosino lavoro di pura ricerca teatrale di per sé non può lasciare indifferenti, come anche lo sforzo di trasportare il mondo della prosa in quello più fisico e materiale del palcoscenico, appare chiaro che questo non basti ad aiutare nella definizione teorica di ogni sezione ma la cura al dettaglio scenico permette allo spettatore di trovare sempre nuovi elementi di suggestione. Il processo moreschiano è a lenta digestione, quello de La Lucina invece corre affannandoci, scaraventando la platea in un abisso di stimoli poetici che hanno in parte perso la lucidità del loro autore, ma di cui posseggono palesemente il fascino dell’imperscrutabile.
Giuseppe Di Lorenzo
Visto al Teatro Sociale di Gualtieri il 20.07.2019