Recensione “Di quel silenzio custode di leggerezza: Eufemia di Giorgia Lolli”
eufemìa s. f. [dal gr. εὐϕημία, comp. di εὖ «bene1» e ϕημί «dire»]. – 1. In origine, il silenzio rituale che, presso gli antichi Greci, si doveva osservare durante la preghiera e il sacrificio, per evitare parole che sarebbero state di cattivo augurio. 2. Figura retorica, consistente nella sostituzione di una parola propria con altra di significato attenuato, per scrupolo religioso o morale o per riguardi sociali; meno com. di eufemismo.
Lo spettacolo scritto da Giulia Lolli, anche in scena insieme a Sophie Claire Annen e Vittoria Caneva nell’ambito di Direction Under30, adotta un titolo enigmatico: Eufemia, una parola iniziatica alla cui etimologia è necessario ritornare per solleticare gli immaginari, tentando una smaterializzazione e una nuova incarnazione di senso attraverso la sintesi dei corpi rappresentati. Un silenzio inscenato, custode della leggerezza e del godimento della parola detta bene, che si rende manifesto e attraversabile tramite i movimenti delle tre performer.
Tre corpi, quelli delle danzatrici, neutralizzati e accomunati dall’abbigliamento “atletico” scelto, maglia, pantaloncini, calzettoni di spugna, che tematizzano una molteplicità di spunti, abitati con la leggerezza di un salto acrobatico. Il primo fra questi, che incornicia gli affondi tematici successivi, è il tentativo di sperimentare – a tratti forzare – differenti linguaggi, riflettendo sulla testualità e sulla polisemia della parola. Giocando con il mescolamento di differenti codici di comunicazione, la parola si fa corpo e il corpo si fa territorio di senso condiviso, scalzandosi dal dominio della stessa e delineando una parabola crescente che dalla parola passa per la scrittura – con la comparsa sulla scena della macchina da scrivere riconfigurata nella funzione e negli usi – e defluisce poi nel corpo portatore di storie.
Cos’è questo se non un viaggio di ritorno?
“Ritorno” è la parola che sfonda la quarta parete, che innesca un gioco di scambio e di relazione orizzontale con il pubblico, chiamato a restituire associazioni libere e percorsi possibili legati alla suggestione lanciata.
“Viaggio”, parola regalata che traccia la direzione a cui la rappresentazione da quel momento in poi tenderà. Un viaggio di ritorno, un nostos nostalgico attraverso epoche passate e storie ereditate dalla patina scanzonata e disimpegnata.
Si osserva una prima parte caratterizzata da una temperatura concitata, composta da movimenti tonici e da una gestualità ricorrente e provocatoria che funziona da ritornello in grado di scandire la partitura ritmica dello spettacolo. A questa si contrappone una seconda sezione in cui il gioco espositivo, irriverente del sé, fatto di pose, sguardi enfatizzati e potenzialmente sovversivi si spegne in una rievocazione per quadri giustapposti dell’immaginario storicizzato del femminile ereditato, tutto ancora da elaborare.
L’atteggiamento utilizzato per attraversare e riappropriarsi di quei corpi è la leggerezza dell’emulazione, del gioco mimetico di figure, come quella della dattilografa, o di silhouette femminili avvezze a sentimentalismi e ad anacronistici romanticismi. Tale orizzonte permette una certa flessibilità metamorfica, inscenando l’esperienza autobiografica di un corpo che si misura con calchi archetipici e modelli passati – per fortuna, viene da pensare- alla ricerca di modelli genealogici, a cui legare il proprio personale vissuto.
Una rappresentazione che rifugge la deriva monolitica e cristallizzata della visione, mai completamente disillusa, ma costantemente tesa a diventare qualcos’altro, qualcun altro, in un rapido gioco di specchi che riflette quello che ci ha precedute.
Complessa – a tratti poco radicata e scivolosa – è la lente nostalgica che filtra lo sguardo proposto, ancora in fase di costruzione di una personale prospettiva oppositiva in cui situarsi e da cui leggere la storia dell’immaginario stereotipico.
Una consapevolezza ancora in fieri che dichiara apertamente l’imperfezione, il senso della caduta, la fragilità come caratteristiche fondatrici di quel tentativo di elaborazione solo abbozzato, aperto a rivalutazioni. Interessante l’urgenza di comprendere le dicotomie più spinose – donna e tecnologia, donna e corpo in relazione, donna e esposizione del corpo allo sguardo altrui, donna e rappresentazione- tuttavia non abbastanza incisivo e sovversivo, ma ancora in cammino per guadagnarsi spazi di visibilità e di emancipazione.
Animate dal desiderio di raccontarsi e allo stesso tempo di rievocare la storia, Eufemia appare come un primo tentativo di lento avvicinamento alla rappresentazione autobiografica del sé in relazione con le storie del femminile (oltre)passato, i cui effetti si ripercuotono sui corpi di oggi. La leggerezza qui, permette di sgusciare via dai modelli senza abitare a fondo la contraddizione e la complessità irrisolta del loro portato storico. Guardare, esplorare, contestare quanto continua ad inquinare e ad ossessionare le nostre storie (femminili e non) sono processi individuali e collettivi da socializzare per elaborare un posizionamento consapevole rispetto alla storia e alla parola.
Eufemia, seppur con le sue insicurezze, individua un territorio performativo e una testualità alternativa da cui ripartire ad auto-narrarsi, decostruendo ciò che ci ingabbia: il teatro, la danza, i corpi in relazione e in continua discussione con la Parola ereditata.
Ivana Damiano
Visto al Teatro Sociale di Gualtieri il 24.07.2021