Recensione: “Rimini e l’apocalisse che (non) ti aspetti”
Nel lontano 1985, Pier Vittorio Tondelli annunciava la fine del mondo nella riviera romagnola. Nelle ultime pagine del romanzo Rimini, lo scrittore emiliano immagina l’apocalisse abbattersi sulla città, con un incendio che divampa su tutto il lungomare. Ma niente paura: Rimini è Rimini, e i riminesi non si fanno mica scoraggiare dalla prima apocalisse di turno. Nel delirio e nel caos generale, qualcuno si ingegna e organizza un tour su pedalò per ammirare dal mare la città divorata dalle fiamme. Un panorama che è la fine del mondo – verrebbe da dire – alla modica cifra di sole cinquemila lire.
Una sorta di apocalisse tascabile quella immaginata da Tondelli, di cui Rimini si sarebbe cioè servita all’occorrenza, a scopi rigorosamente turistici. O perlomeno così l’avrebbero definita Niccolò Fettarappa Sandri e Lorenzo Guerrieri, vincitori della settima edizione del Festival Direction Under 30, con un irriverente spettacolo il cui titolo era proprio questo.
Che sia o meno una coincidenza, anche l’ottava edizione del Festival, conclusasi lo scorso 25 luglio al Teatro Sociale di Gualtieri, s’è inserita nel solco d’una nuova visione post-apocalittica. Con Rimini è il Gruppo RMN ad aggiudicarsi il Premio delle Giurie.
Lo spettacolo, pur non essendone un adattamento teatrale, deve all’omonimo romanzo la propria ispirazione. Solo che stavolta la fine del mondo c’è stata sul serio, da letteraria è divenuta reale, mettendo in ginocchio un’intera nazione e facendone emergere le più intrinseche contraddizioni. Rimini e l’intera riviera romagnola, in pieno spirito tondelliano, si sono rimboccate le maniche, reggendo al duro colpo della pandemia di Covid-19 e riuscendo a garantire ai propri turisti la migliore estate della loro vita, l’ennesima…
Il lungo viaggio che ha portato alla messa in scena di Rimini, tuttavia, ha ben poco a che vedere con l’avvento del virus, almeno nella sua fase d’avvio. Tutto ha inizio nel 2018, quando Leonardo Bianconi, Luisa Borini, Leo Merati, Giulia Quadrelli e Chiara Sarcona, insieme a Mario Scandale (regia) e Francesco Tozzi (aiuto-drammaturgia), partono alla volta della città romagnola con lo scopo di narrarne usi e costumi – da mare, s’intende –, luci e ombre di quella che conosciamo come la più grande industria dell’intrattenimento estivo su scala nazionale, dallo stesso Tondelli definita «una galassia dove euforia e solitudine convivono».
L’intuizione, stimolata dalla partecipazione al bando RADAR promosso da Emilia Romagna Teatro Fondazione (ERT), si rivela col tempo felice, e prospera: più di cinquanta le persone intervistate nel giro di tre anni, più di cinquanta le microstorie intercettate.
Testimonianze in buona parte disperse, o meglio abilmente trasmutate attraverso un lavoro di condensazione scenica, le cui tracce la compagnia ha saputo disseminare lungo tutto l’arco temporale dello spettacolo. Sul palco dunque, sopravvissuti alla rigida selezione del materiale raccolto, soltanto quattro personaggi: una bagnina di terra che si crede psicologa e risolutrice ultima dei risibili problemi dei propri clienti, un’influencer regina delle serate in discoteca e vittima della propria immagine, una cameriera sfruttata che rinuncia in parte alla propria dignità pur di racimolare qualche soldo, e un uomo maestro nell’organizzazione di eventi letteralmente da sballo. Vi è a dire il vero una quinta presenza ad animare la scena, più ambigua e problematica: quella di un giovane regista che, da dietro alla propria scrivania situata a lato del palco, si relaziona con ognuna delle già menzionate figure, che sembrano rianimarsi soltanto nello spazio riconquistato della sua memoria. Una sorta di Tondelli redivivo, unico a tenere le fila della narrazione: dopo aver esplorato come un reporter la riviera in compagnia della sua fedelissima telecamera, le cui riprese vengono proiettate su uno schermo in fondo alla scena, è ora pronto a restituire al pubblico il proprio sguardo e le proprie riflessioni, senza tralasciare nessuno dei dialoghi avuti con i quattro intervistati.
Il suo rapporto con ognuno di loro risulta tuttavia compromesso dal silenzio: ogni volta che a prendere la parola sono la bagnina, il maestro di eventi, l’influencer o la cameriera, il regista tace, osservandoli con la dovuta distanza, quasi impietosito da tutta quell’ingenua vitalità, investito da un sentimento di compiaciuta tenerezza. Alla composta, forse arrogante, introversione del primo, si oppone la sfacciata esuberanza dei compagni di scena, che con voci squillanti e gesti plateali danno vita a una rappresentazione vivace e dinamica, a tratti stemperata dagli interventi del regista. Assistiamo dunque a dei mancati dialoghi, sempre più prossimi alla forma monologante, a esprimere lo stato di avvilente solitudine in cui versa ogni personaggio. Che poi, se quanto rappresentato corrisponda o meno al vero, a quanto cioè effettivamente detto dalle persone intervistate dalla compagnia, è difficile a dirsi. L’assenza di dialogo getta ancor più nel dubbio, e facciamo fatica a capire se davanti a noi abbiamo vere e proprie testimonianze, o piuttosto rielaborazioni soggettive poco attendibili, marcatamente stereotipate.
Stereotipo o no, a poco a poco cominciamo tutti a percepire un poco di amarezza nelle vicende narrate; in men che non si dica ecco allora i quattro cimentarsi in coreografie da villaggio turistico, travolti da improbabili ondate di malriposta euforia. Sulle note di Rimini Rimini Rimini di Raoul Casadei o Spiagge di Fiorello, ci mostrano una città emblema della cultura del turismo di massa, dove non c’è posto per la calma, la riflessione, la memoria. Esiste solo il divertimento, in tutta la sua inquietante serietà.
Finché poi arriva lei, l’apocalisse, a far dubitare tutti delle proprie convinzioni, fino a qualche attimo fa certezze granitiche, concedendo il beneficio del dubbio, il privilegio della riflessione, e dando finalmente a ciascuno dei personaggi una maggiore credibilità. Tutti mostrano ora la propria vulnerabilità, la rabbia troppo a lungo repressa, le ansie sottaciute. Viene dunque messa in scena una visione controversa dell’avvento della pandemia, quasi capace di rimettere ordine nelle singole vite dei personaggi rivieraschi, chiamati a fare i conti con la vita che fu, e che non è più.
Rimarranno, Rimini e i riminesi, gli stessi anche una volta sventato il pericolo pandemico? Tondelli avrebbe pessimisticamente risposto sì, e anche la rappresentazione sembra volgere a questa conclusione. Nel finale la città viene paragonata a uno spettacolo fiabesco in un parco d’animazione, dove gli attori cantano in playback e fuori sync. Ciononostante, «alla fine, c’è sempre qualcuno che applaude». E siamo tutti pronti per una nuova apocalisse.
Matteo Polimanti
Visto al Teatro Sociale di Gualtieri il 25.07.2021