Cronaca di una sparizione annunciata: Afànisi, o dell’importanza della percezione di Ctrl+Alt+Canc
L’età della frammentazione in cui ci ritroviamo a vivere richiede un tentativo di ricomposizione, non necessariamente pacificato e conciliatorio, quanto piuttosto centrato sulla possibilità di riaprire una piazza di incontro, un luogo dove poter guardare l’altro. Il teatro, proprio in questo senso, sembra essere uno spazio ideale per compiere questo processo, ripartendo dalla creazione di una comunità. Afànisi, l’ultimo lavoro della compagnia napoletana Ctrl+Alt+Canc (composta da Alessandro Paschitto, Raimonda Meraviglia e Francesco Roccasecca) insegue proprio questo obiettivo: ambizioso, certo, complesso e rischioso realmente, ma decisamente riuscito e compiuto fino in fondo, meritandosi inoltre l’assegnazione del premio della Giuria Critica.
Luci accese, nessun distanziamento tra palco e platea, tre attori in scena che sono unicamente ciò che sono, e ovviamente lo spettatore, il vero centro focale di questo spettacolo: è proprio la sua azione, non tanto – o non solamente – fisica, quanto piuttosto quella del suo flusso di pensiero, delle sue associazioni. La strutturazione della drammaturgia di Afànisi – elaborata da Alessandro Paschitto – sembra partire da un tentativo concreto di arrivare a fare i conti con le possibilità reali di attivare una comunicazione teatrale tra scena e platea, mettendo in atto la creazione di uno spazio vuoto sul palco, abitato unicamente dal testo e dagli attori, che però dichiarano di essere «una rappresentanza non una rappresentazione». Un’affermazione significativa, quasi programmatica: la finzione in scena non è più credibile, è impossibile eludere il dato di consapevolezza di chi osserva. E proprio su questo i Ctrl+Alt+Canc costruiscono l’ingaggio dello spettatore: inutile fingere di credere in quella che Coleridge ha chiamato “volontaria sospensione dell’incredulità”, non è più replicabile nello sguardo di chi siede in platea oggi. Liberato così lo spazio teatrale da questa presenza decisamente ingombrante, possono essere tracciate nuove traiettorie per ricostruire un patto diverso con lo spettatore. Afànisi attua la formulazione di un linguaggio innovativo, capace di realizzare un ribaltamento anche ironico della concezione della scena e delle modalità di fruizione teatrale. Attraverso il meccanismo della stimolazione di catene associative di immagini, i tre attori giocano con il pubblico, ridisegnando lo spazio scenico, ridefinendone ampiezze e confini. Chiedono agli spettatori una presenza attiva: stare comodamente appollaiati sulla propria poltrona non è possibile, ciascuno è chiamato a essere reale catalizzatore ed elemento necessario del dialogo non verbale ricercato per l’intera durata dello spettacolo. Questo invito alla partecipazione, però, si gioca principalmente su un piano mentale, di pensiero. Così gli attori invitano a voltarsi e osservarsi, cercando di attivare la propria immaginazione, non solo lasciandola andare a briglia sciolta, ma anche plasmandola sui volti di coloro che siedono in platea. A questo punto chiedono: «Di chi vi potreste innamorare? / Con chi passereste del tempo e poi no. Non funzionerebbe / Chi è lo stronzo? / A chi le cose sembrano essere andate proprio bene? / Chi avrebbe forse meritato qualcosa in più?». Il tempo a disposizione è poco, il ritmo delle immagini è a tratti frenetico e non sempre l’associazione emerge a tempo debito, però non è questo che davvero conta: è più importante constare, invece, come ciascuno abbia potuto osservare l’altro – e quindi anche sé stesso – nell’atto di sedere a teatro, pur sempre continuando a poter spostare il proprio sguardo dal palco alla platea. Gli attori pongono domande ma non si attende una reale risposta, perché è l’attivazione del pensiero il fulcro di questo lavoro; la reazione dello spettatore, infatti, potrebbe anche essere un tentativo di opposizione all’ingaggio proposto, specie perché una simile stimolazione può risultare faticosa, richiedendo uno sforzo di mentalizzazione insolito.
Sgomberata così la scena, lo spazio vuoto viene riempito dalla presenza dello spettatore, e dal suo diritto alla scelta, alla presa di posizione, alla percezione della responsabilità. Sta davvero a ogni singolo individuo presente in sala la decisione di prendere parte – o meno – alla creazione di un pubblico, di una comunità colta e mostrata nel suo farsi, illuminata dai fari mai spenti, necessari per osservarsi e riconoscersi.
Alice Strazzi