Miss Gualtieri 2014 alle nuove generazioni
15/07/2023
fra Torino e Gualtieri
Sono Alice Conti, autrice, attrice e regista e sono molto emozionata nel tornare in questo luogo, il Teatro Sociale di Gualtieri, che tra i primi ha riconosciuto il lavoro del mio gruppo teatrale nomade ORTIKA. Qui abbiamo vinto la prima edizione del Premio Direction Under 30 con il nostro spettacolo Chi ama brucia, 10 anni fa.
Riconoscimento è una parola chiave ed è preziosa, perché noi lavoravamo già, come artiste singole e come gruppo, ma qui, per la prima volta, abbiamo avuto un terreno di incontro con altri artisti e artiste e compagnie, programmatori e critici; abbiamo avuto la possibilità di un confronto, di essere viste e ascoltate. Non ultimo il Premio ci ha permesso di ripagarci il lavoro di creazione, novità in quel momento rivoluzionaria, che per la prima volta ci ha convinte che il nostro poteva essere riconosciuto come lavoro. ORTIKA esiste dal 2011 e abbiamo all’attivo un video-documentario e 10 spettacoli. Il più recente – Italia90 – debutterà in autunno a Milano e parla proprio di questo argomento: della difficoltà di diventare adulti. Della difficoltà delle generazioni nate alla fine del secolo scorso a trovare il proprio posto. Il crescere, o meglio l’essere cresciuti, senza diventare adulti. E non perché buoni a nulla o troppo viziati, choosy, anzi. Siamo iper-formati, specializzati, recensiti, premiati, ma mai in fin dei conti riconosciuti . E questo dipende da condizioni strutturali, dal fatto che non c’è spazio, da tendenze infantilizzanti del sistema, sia esso il mercato, la famiglia, la società.
Ho riflettuto a lungo sul senso di tornare qui, di esserci. Mi è capitato in questi anni di partecipare a numerose tavole rotonde, momenti di riflessione di categoria, sul teatro giovane o emergente. Ricordo in una di queste occasioni Caroline Baglioni – che aveva appena vinto il Premio Scenario e poi InBox*, ed era stata selezionata alla Biennale di Venezia – che diceva: “Cos’altro dobbiamo fare per emergere?”. Ancora a proposito dell’essere riconosciuti.
Noi ORTIKA poi abbiamo scelto una strada complessa, il nomadismo, il non avere una casa (che significa poi trovare molte case, luoghi e persone ospitali e complici come è stato Gualtieri). Abbiamo scelto questa posizione scomoda, di non collocarci o radicarci in un solo territorio, ma di attraversarli tutti, di essere apolidi; un posizionamento che ci permette di guardare alle tematiche che affrontiamo in modo inedito, praticare uno spostamento dello sguardo antropologico.
E’ importante il posizionamento di un artista perché credo che il suo ruolo sia poetico e politico, sia di guardare e decifrare i meccanismi di ciò che lo circonda.
Fare teatro in questi anni è stata una delle esperienze più significative della mia vita, una acceleratore di crescita e di contatto con la realtà; è stato una magia e un magheggio, sempre precario, una sfida costante al mondo, una sfida che si nutre di adrenalina, endorfina, caffeina, un’avventura entusiasmante ed estenuante, mai un lavoro (normale). Raramente è considerato, riconosciuto, trattato come un lavoro. Ma poi ti scontri con l’economia reale, con le richieste dei teatri, dei programmatori e dei produttori, con lo stare nel mercato. La mia esperienza dice che colmare quello scarto per far quadrare il cerchio si fa sulla nostra pelle. Allora mi viene da dire, alla fine quello che conta è tenersi strette le persone in cui ti riconosci e che ti danno il coraggio di immaginare. Fuor di retorica è un miracolo ogni giorno per una compagnia indipendente. Ogni spettacolo è una scommessa contro tutto. Una narrazione sempre al limite. A 20 anni pensi che bello esplodere, facciamolo questo finale con il botto. A 30 anni lo metti sistema e ne parli negli spettacoli. Fino ai 35 stai a rincorrere bandi, giocando fino a che puoi, ma quella del teatro emergente, della gioventù è una categoria esauribile per definizione, una riserva indiana fatta di bandi, sussidi e incentivi, una categoria protetta e anche sovraesposta, una vasca di allevamento/allenamento intensivo che ti fa dubitare che ci sia un livello superiore, che ci sia alcun mare. Poi guardi ai 40 e ti dici: me lo devo riconoscere io che siamo stati eroici. Il mio lavoro deve avere senso in primo luogo per chi arrivo a incontrare nel pubblico, per i miei compagni di strada e per me. La nostra vita è questo casino bellissimo ed entusiasmante che però esclude qualunque altro orizzonte di realizzazione personale o di normalità. E’ recente lo studio di Amleta sulla genitorialità in teatro: analizzando le possibilità di accesso ad ammortizzatori sociali si fotografa una situazione davvero tragica, di impossibilità strutturale. Ricordo Luana Gramegna di Zaches Teatro – è notizia recente la loro vittoria del Premio Hystrio – che qualche anno fa, con il pancione, si è sentita dire da un programmatore di teatro importante, che avevano rincorso per anni: “peccato andavate così bene, ce l’avevate quasi fatta”.
Qual è il costo di farcela?
Forse ci diciamo cose tanto coraggiose e poetiche sul nostro lavoro ma siamo solo ingranaggi, che hanno preso la forma delle storture del sistema economico. Crediamo di fare un lavoro tanto rivoluzionario ma siamo totalmente immersi nel più becero turbocapitalismo, nell’auto-promozione, nell’obbligo morale interiorizzato di essere produttivi sempre, nel senso di colpa di prendersi un giorno per sé. Il mercato agisce senza mediazione sui nostri corpi, capitalizziamo anche il nostro tempo. Siamo ingenui.
Il nostro lavoro è la nostra vocazione e si sovrappone alla vita o la fagocita?
Anche in occasioni come questa, dove ci diciamo che siamo una comunità, forse siamo solo in competizione per risorse scarse. Anche questa pletora di grandi occasioni, di visibilità, persino i Premi, se esistono da soli nel deserto, finiscono per allenarci ad un rapporto ambiguo con i nostri committenti. Mascherano un rapporto brutalmente economico, che ci mette nella postura della riconoscenza, di ringraziare per poter svolgere il tuo lavoro. E per un’artista stare in questa postura non permette una visione lucida.
La pandemia ha aperto una stagione di riflessione e di rivendicazione, per due anni ci siamo detti siamo tutti nella stessa barca; criceti scesi dalla ruota ci guardavamo spauriti pensando a cosa poteva e doveva cambiare, ci dicevamo che con quelle premesse non saremmo risaliti sulla giostra. Poi abbiamo ricominciato, come e più e peggio di prima.
Allora il mio augurio per il teatro indipendente emergente è in primo luogo quello di volere tutto, di non abbassare l’asticella.
E poi quello di togliersi di mezzo. Spazzare via la tentazione narcisista, l’autoreferenzialità. Di essere in scena come tramite, come veicolo di qualcosa di più grande di noi, che cambia chi vi assiste. Di essere consapevoli del proprio ruolo, del potere trasformativo del teatro.
Il mio augurio è la lucidità di visione, il non essere ingenui, il guardare e decostruire i meccanismi.
Di continuare ad avere quel coraggio e quella sconsideratezza di spingersi sul limite.
Con amore
Miss Gualtieri 2014